
La festa dell’Ascensione segna quella transizione tre il tempo di Gesù in terra, e quello della Chiesa. Come fare adesso che Gesù non c’è più: o meglio c’è ma non nello stesso modo. Condivido qui l’omelia di ieri all’evento R/S di zona Centro Urbis, ai Monti della Tolfa. Parlo del tempo dopo l’ascensione, del bisogno di crescere nelle propria fede, e di come la vita di clan come rover/scolta – fatta di strada, comunità e servizio – offre un’ottima possibilità di crescita nella fede, per chi osa andare oltre. Spero sia utile anche ad altri, un po’ come chiacchierata al fuoco.
Oggi la Chiesa celebra l’ascensione di Nostro Signore. È il momento di cesura, immagine forte di cambiamento per la vita della prima comunità. Gesù non c’è più. Quel Gesù con il quale avevano vissuto, sentito predicare, fare segni, visto soffrire e morire, del quale hanno fatto esperienza che è risorto … non c’è più.
E mo’ … che famo? Ora è il tempo nostro. Ora, nel dopo ascensione, è tempo della Chiesa: tempo della testimonianza, tempo dell’incontro, tempo delle fede. Tempo anche delle domande di fede. Perché troppo spesso confondiamo la fede con la credulità. Sai, come se la fede cristiana volesse trasformarci in dei bambocci. Quelli della chiesa del “fatti poche domande che è meglio.”
Ma quella non è la fede dei santi: non è la fede di San Paolo, che imparò sulla propria pelle vivere l’essenzialità, sempre per strada, perché non poteva non predicare il Cristo che l’aveva incontrato sulla via di Damasco. Non è la fede di San Giorgio, quello vero, quel soldato romano che con coraggio affronto il procuratore romano che gli chiedeva di negare il Cristo. Né la fede di San Francesco, che trascinato davanti al vescovo dal padre si spoglio nudo lasciando la sicurezza delle reti sociali e famigliari, per seguire la via che intravedeva tracciata davanti a lui.
Non abbiate paura delle domande. Anzi, se guardate il mondo senza domandare, anche forse arrabbiarvi con Dio per le tante ingiustizie, per la povertà, per l’odio e il male; se guardate la Chiesa è non siete disturbati da alcuni atteggiamenti che molti uomini e donne di chiesa hanno, allora, forse non state prendendo la vostra vita di fede sul serio. Dio non ha paura della rabbia onesta … può essere catartica!
Ma se sperate che la fede da bambini di prima comunione dovrebbe bastarci, provate ad indossare le mutande che portavate allora. Suppongo che con c’entrate più: e non ci fa problema perché siamo cresciuti, siamo maturati. Ma per la vita di fede spesso cerchiamo d’indossare le stesse mutande, di vestirci con le stesse risorse di catechesi e preghiera. Poi ci stupiamo che ci troviamo o scomodi, stretti, o anche nudi nella vita di fede. Poi, facilmente, cerchiamo di spostare la colpa. Colpa della chiesa, troppo noiosa, troppo ricca, troppo incoerente; colpa del prete, perché non sa rapportarsi, troppo all’antica. Sarà pure vero, ma forse siamo noi che non osiamo crescere.
Volete prendere sul serio la vostra vita di fede? Volete veramente arrivare a poter fare della fede una scelta di vita? Il modo lo conoscete! Non cercate fuori, ma qui. Se vivete l’esperienza di clan fino in fondo, non vi serve altro.
Perché la STRADA ci insegna l’essenzialità. L’essenzialità del pellegrino, che si rende conto che la roba inutile diventa zavorra, che sa – per vissuto – che la strada ti entra dai piedi. Anche la fede entra dai piedi. La fede pure è cammino, la Chiesa è pellegrina sulla terra [Lumen Gentium 48]. La dove si scorda che è pellegrina, la chiesa diventa sedentaria, e cominciano tutti i malanni: s’irrigidisce, si atrofizza, invecchia in fretta. La strada diventa luogo d’incontro con il Signore, nel saper godere il silenzio, nell’affrontare i propri limiti e le proprie paure.
E il pellegrino, anche quello che parte solo, si scopre in COMUNITÀ. Circondato da altri che condividono con un pezzo di strada, compagni – cum panis – quelli che condividono il pane, condividono i talenti. Non a caso la Chiesa è innanzitutto comunità, non istituzione. È la comunità da cui abbiamo ricevuto l’annuncio. La comunità che ci testimonia e tramanda il grande racconto della vita di Dio con il suo popolo, della vita di nostro Signore.
Ma l’annuncio è vuoto se non sfocia in SERVIZIO. Giovanni, la vigilia della passione di Gesù, ci racconta la lavanda dei piedi. Non a caso. Non si può capire l’eucarestia senza la lavanda dei piedi. Non si può capire la croce senza. E non puoi chiamarti cristiano se non prendi sul serio il comando di Gesù: “Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri.” (Gv 13,14). “Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri.” (Gv 13,34). Per lavare i piedi, bisogna sporcarsi le mani, bisogna affrontare la puzza. Quel talento bisogna farlo fruttare, non seppellirlo. È l’amore sconfinato di Gesù che vince la morte. L’amore non può rimanere nel sepolcro!
E noi da dove partiamo? Come i discepoli di Emmaus (Lc 23,13-35), spesso anche a noi serve fare strada. Strada dove partiamo anche noi spesso tristi e delusi, ma se aperti al mistero ci troviamo a camminare con il Signore risorto … il Signore che oggi, come allora, ci “spiega il senso delle Scritture, e spezza il pane per noi.” [Preghiera Eucaristica V] A noi, basta metterci in cammino.